Giovanni Battista Lamperti (insegnante di canto) 1839-1910

- «Non è con i movimenti muscolari, ma con le sensazioni che si controlla l’emissione vocale.»
- «Il vero canto richiede l’eliminazione delle tensioni localizzate, che sono innaturali, e questo non comporta affatto la riduzione dell’intensità naturale del suono, anzi ne è la premessa.»
- «Non si può insegnare a un muscolo a funzionare, si può solo stimolarlo a funzionare.
- I controlli diretti nel canto sono inutili.»
- «Nel canto non è richiesto un controllo diretto superiore a quello necessario per parlare, occorre però un’attività coordinata, che stimoli il sorgere dell’energia e dei riflessi naturali.»
- «Ogni insegnante inventa qualche nuovo trucco e a poco a poco intacca il potere e la capacità di controllo dati dalla natura.»
- «La voce cantata è un fenomeno così sottile e richiede l’intervento di meccanismi così complessi che può essere controllata solo se usata in modo naturale e solo se concepita in modo semplice.»
- «Non le dissezioni anatomiche, né le vivisezioni fisiologiche, ma le funzioni naturali della respirazione, della fonazione, , dell’udito, della vista, del tatto creano l’atto fisiologico del canto. Tutto il resto è bagaglio in eccesso.»
La respirazione per il canto di Alessandro Patalini
Soltanto chi respira bene sa cantare bene (A. Bernacchi, in H. F. Mannstein: Système de la grande Méthode de chant de Bernacchi, 1835)
Chi non conosce l’arte di signoreggiare il proprio fiato, non potrà mai chiamarsi vero cantante (E. Garcia: Trattato completo dell’arte del canto, 1840)
Tutta l’arte del canto sta nel saper ben respirare, e questo faceva dire agli antichi maestri essere il canto la “scuola del respiro” (E. Delle Sedie: Arte e fisiologia del canto, 1876)
Premessa
- La respirazione per il canto lirico, concepita in un senso completo, è l’adattamento di una funzione egemonica (che è quindi prioritaria rispetto ad altre funzioni del corpo umano perché destinata ad assicurare la sopravvivenza), alle specifiche esigenze di una funzione secondaria come quella fonatoria.
- Questo adattamento non è affatto facile, e risulta condizionato da fattori generali, come la difficoltà di modificare una funzione che normalmente è gestita a livello istintivo, e da fattori individuali, che consistono essenzialmente nel grado di agevolezza respiratoria (congenita o acquisita) propria di ogni individuo. La respirazione per il canto risulta quindi dipendente da regole sia generali sia individuali, e, se si ignorano le prime (ovvero le caratteristiche fisiologiche dei movimenti respiratori), le seconde (ovvero le caratteristiche individuali) risultano spesso difficilmente gestibili, sia nel caso in cui debbano essere migliorate, sia nel caso in cui, essendo corrette, debbano essere riprodotte per la prestazione professionale. Trascurare la conoscenza oggettiva della respirazione, inoltre, asseconda la illusoria convinzione che non esistono regole generali cui fare riferimento per insegnare e/o imparare a gestire la respirazione per il canto.
- Va comunque considerato che, nonostante il corpo umano funzioni secondo meccanismi comuni a tutti gli esseri umani, le caratteristiche individuali, fisiche e attitudinali, inducono a percepire e a descrivere (nei casi peggiori, a non saper percepire e a non saper descrivere) i propri movimenti respiratori, fino a ritenerli, erroneamente, diversi da quelli di tutti gli altri.
Introduzione
Per analizzare l’argomento della respirazione per il canto va operata una distinzione fra due aspetti diversi, per quanto siano tra loro strettamente connessi:
1. I movimenti dei muscoli respiratori finalizzati allo scambio di aria;
2. I movimenti, istintivi o coscienti, che i muscoli respiratori compiono durante la fonazione, e che hanno effetti sulla gestione del flusso espiratorio e della pressione sottoglottica.
Il rifornimento di aria
La respirazione
È lo scambio di aria fra i polmoni e l’atmosfera, avviene alternando ciclicamente condizioni di depressione e pressione all’interno della gabbia toracica, che danno rispettivamente luogo a inspirazione ed espirazione.
Il diaframma
- È il principale muscolo respiratorio del corpo umano, composto di numerosissime fibre agganciate su tutta la base della gabbia toracica e sulle vertebre lombari, e confluenti, verso l’alto e l’interno della gabbia toracica, sul centro frenico, che si presenta come un intreccio di fibre tendinee che ricorda il fondo di un cesto, in cui appunto giungono ad intrecciarsi le fibre che compongono i lati del cesto. Sul centro frenico sono il cuore e i bronchi, questi ultimi collegati alla trachea e alla laringe. Ogni movimento del centro frenico, quindi, sposta tutti questi organi.
- Dal centro frenico parte un insieme di legamenti tendinei, chiamato sistema sospensore del mediastino, che lo collegano al rachide cervicale, alla articolazione temporo-mandibolare e allo sterno. Questo sistema elastico si tende alla discesa del centro frenico prodotta dalla contrazione del diaframma e torna a riposo al rilascio della contrazione, aiutando la risalita del centro frenico e la espirazione, per questo motivo il prof. Ph.-E. Souchard lo chiama “tendine del diaframma”.
- Il ciclo respiratorio è dunque sinteticamente riassumibile nell’alternarsi di inspirazione (contrazione del diaframma, discesa del centro frenico, tensione del sistema sospensore del mediastino, depressione intratoracica) ed espirazione (rilascio del diaframma, risalita del centro frenico, ritorno a riposo del sistema sospensore del mediastino, pressione intratoracica).
- Il diaframma non assolve soltanto ad una funzione respiratoria, ma ha un ruolo fondamentale anche nella funzione circolatoria e digestiva grazie alla capacità di produrre condizioni di pressione e depressione intratoracica che hanno un riflesso sulla massa viscerale (alla depressione dell’una corrisponde necessariamente la pressione sull’altra, e viceversa).
- È inoltre importantissima la funzione posturale, per cui come riporta il dott. O. Meli, Presidente della Associazione Italiana Rieducazione Posturale Globale, “il diaframma interviene, insieme ai muscoli addominali e spinali, nella stabilizzazione del rachide e del tronco grazie all’aumento della pressione intraddominale ed intratoracica, contribuendo a formare una sorta di manicotto di supporto per la colonna vertebrale”.
Funzionalità e disfunzionalità del diaframma
- La profonda connessione fra il diaframma e organi, muscoli e ossa del torso, la molteplicità delle sue funzioni, l’incessante utilizzo che ne facciamo senza sosta per tutta la durata della vita, durante il sonno e la veglia, lo stress emotivo che tende ad aumentare il tono muscolare, il fisiologico e progressivo accorciarsi delle fibre muscolari legato all’avanzare dell’età, la gravità terrestre che attrae i visceri e di conseguenza il diaframma, fa sì che questo muscolo tenda più facilmente a contrarsi e scendere, che a rilasciarsi e risalire.
- Di conseguenza, esso perde elasticità, che si misura confrontando la lunghezza di una fibra muscolare nella condizione di massima contrazione e di massimo rilascio, e, come scrive sempre il dott. Meli, “La meccanica respiratoria, già in assenza di patologia, tende a favorire uno squilibrio progressivo della respirazione caratterizzato da quello che il Prof. Souchard definisce “blocco inspiratorio” del torace, caratterizzato dal rimanere del torace in un atteggiamento in inspirazione costante”.
- Questo blocco, ovviamente, finisce per interessare anche i muscoli intercostali, che possono essere coinvolti profondamente sia nella respirazione che nella gestione della voce artistica.
- Da un punto di vista neurologico, ciò concorda con quanto scrive la dott.ssa L. Finamore, neurologo: “questa tendenza ad essere contratto per troppo tempo (non un lavoro armonico di contrazione-decontrazione che ogni muscolo dovrebbe seguire) determina una modificazione qualitativa del muscolo stesso. Tale modificazione consiste nel fatto che le fibre muscolari si riducono in percentuale a favore di cellule fibrose di sostegno. Questa modificazione si ritiene sia la risposta naturale adattativa del corpo alla richiesta di un continuo irrigidimento di un muscolo. Nel caso del diaframma la trasformazione fibrosa avviene più lentamente poiché il diaframma si contrae solo per sforzi massimali tutto insieme, di solito tende a contrarsi seguendo un’onda di contrazione, quindi l’individuo se ne accorge coscientemente solo quando è molto evidente il suo irrigidimento”.
Effetti della perdita di elasticità del diaframma
- Tornando agli studi del prof. Souchard riportati dal dott. Meli, la perdita di elasticità del diaframma “impedisce un adeguato movimento espiratorio del torace, e insieme impedisce di trovare la condizione necessaria per effettuare un valido atto inspiratorio successivo” ciò significa che il sistema respiratorio procede naturalmente verso una graduale diminuzione degli scambi aerei, con maggiore difficoltà ad espirare e conseguente minore capacità di inspirare. D’altronde lo si può dedurre anche logicamente: un muscolo che non si rilascia fa difficoltà a contrarsi, e i polmoni che non si svuotano non possono accogliere nuova aria! Questo per quanto riguarda l’aspetto strettamente respiratorio.
- Dal punto di vista posturale, ricordando la stretta connessione del diaframma con la zona lombare del rachide attraverso le inserzioni dei cosiddetti pilastri del diaframma, e la connessione alla zona cervicale attraverso il sistema sospensore, è chiaro che il mantenimento della contrazione del diaframma tende a trazionare costantemente il rachide in direzione avanti – basso, aumentando patologicamente la curva lombare e quella cervicale. A ciò si aggiungono importanti conseguenze sull’apparato digerente.
- Dato che “l’esofago è saldamente ancorato alla colonna vertebrale, una importante discesa del diaframma, o sforzi continui e ripetuti in occasione di uno sforzo importante associata ad una energica inspirazione, possono determinare l’ ”estrazione” dello stomaco attraverso l’anello muscolare del diaframma e la risalita dello stesso al di sopra del setto”. La eccessiva e costante posizione bassa del diaframma, insomma, fa sì che le sue fibre non riescano più a cingere correttamente la zona di congiunzione fra esofago e stomaco, favorendo la risalita dei succhi gastrici che si riversano nella laringe e causano i diffusissimi problemi di reflusso gastrico. Nei casi più gravi, il diaframma giunge a posizionarsi così in basso che una parte dello stomaco resta al di sopra, dando luogo alla cosiddetta ernia iatale.
- Temo che molti cantanti possano riconoscere in queste patologie (difficoltà respiratorie, aumento delle curve lombare e cervicale del rachide, reflusso gastro-esofageo ed ernia iatale) uno o più dei propri disagi, e che possano considerare la perdita di elasticità del diaframma come una delle possibili cause.
- D’altronde la dott.ssa R. Mazzocchi, logopedista del Centro di Audiofoniatria dell’Ospedale di Spoleto diretto dal dott. G. Brozzi, ha elaborato un protocollo di trattamento delle disfonie collegate a problemi gastroesofagei che prevede la distensione le fibre del diaframma, e che ha dato risultati positivi su un significativo campione di pazienti.
I problemi veri e falsi della respirazione del cantante
- Venendo al caso specifico della respirazione artistica, possiamo utilizzare quanto esposto fin qui per collegare i problemi respiratori frequentemente avvertiti dai cantanti, come la difficoltà a realizzare una soddisfacente presa d’aria, la esiguità e velocità della espirazione, la tendenza a quello che viene comunemente definito senso di “ingolfamento”, ad una perdita di elasticità dei muscoli inspiratori, che tendono progressivamente a mantenere la propria contrazione e quindi a rimanere in posizione inspiratoria. La prova eclatante di ciò deriva da una osservazione possibile a tutti: quante volte sentiamo di aver finito il fiato e, non appena prendiamo nuova aria, avvertiamo un senso di “ingolfamento”? In quel caso dovremmo considerare che se fosse stata un effettiva mancanza di aria, la inspirazione sarebbe bastata a risolvere il disagio, se, invece, il disagio viene addirittura acuito dalla inspirazione, vuol dire che la sensazione di “fine fiato” è impropria. Essa andrebbe piuttosto considerata come una condizione in cui, nonostante la riserva di aria non sia esaurita, non si ha la capacità di completare la espirazione a causa, appunto, della difficoltà a rilasciare la contrazione dei muscoli inspiratori e a far agire quelli espiratori.
- Anche la brevità e la violenza della espirazione, in questa prospettiva, dovrebbero essere attribuite alla difficoltà di rilascio di muscoli inspiratori molto tesi, e ricondotte ad un deficit espiratorio. Ne deriva che la risoluzione del problema non può essere ottenuta cercando di potenziare la contrazione dei muscoli inspiratori, ma, al contrario, favorendo il loro rilascio, aiutandosi con la contrazione dei muscoli antagonisti della inspirazione, ovvero gli espiratori, principalmente i muscoli addominali (retto e trasverso dell’addome, piccolo e grande obliquo).
Movimenti volontari dei muscoli respiratori in relazione alla fonazione
Appoggio diaframmatico
In presenza di una corretta capacità di rilascio, la fuoriuscita del fiato è prodotta dal fisiologico rilascio del diaframma, e il cantante che voglia aumentare la durata della espirazione, deve necessariamente limitare la risalita del diaframma grazie alla sua contrazione anche durante la espirazione (non è possibile gestire la risalita del diaframma se non con la contrazione del diaframma stesso).
Questa manovra viene tradizionalmente chiamata Appoggio diaframmatico.
- Durante l’Appoggio diaframmatico il diaframma si contrae, ed è quindi il soggetto di una azione che, proprio come indicato dal termine Appoggio, va dall’alto verso il basso.
- Va considerato che la contrazione del diaframma durante la espirazione tende a far irrigidire la laringe, per cui le corde vocali oppongono una maggiore opposizione al passaggio dell’aria, chiamata impedenza glottica. Aumentando l’impedenzaglottica, il fiato preme con maggiore pressione contro la superficie inferiore delle corde vocali e viene aumentata la pressione sottoglottica, per cui le corde vocali vibrano più ampiamente.
- In tal modo la contrazione del diaframma durante la espirazione causa un aumento di pressione sottoglottica e indirettamente provoca un aumento dell’intensità del suono.
- L’Appoggio diaframmatico è quindi utile sia per aumentare la durata della espirazione, sia per aumentare l’intensità del suono.
La contrazione del diaframma durante la espirazione è chiaramente una manovra non prevista nella respirazione naturale, perché il diaframma viene sollecitato a contrarsi anche nella fase espiratoria, quando la fisiologia respiratoria prevedrebbe che il diaframma si rilasci.
Per quanto l’Appoggio diaframmatico produca un rallentamento della espirazione e un aumento dell’intensità sonora, fattori spesso importanti per le esigenze della voce artistica, va ricordato che c’è sempre un alto rischio che tale manovra impedisca:
· un completo utilizzo della riserva d’aria, sottraendo la principale risorsa alla fonazione e impedendo una successiva ampia inspirazione,
· la fluidità della espirazione, compromettendo la continuità e la qualità del suono.
Per ottenere tutti i vantaggi derivanti dalla manovra di Appoggio diaframmaticoed evitare o almeno ridurre i rischi di una manovra artistica considerabile a livello generale come anti-fisiologica, si rende quindi necessario un aiuto che renda la espirazione comunque completa e fluida, proprio mentre l’Appoggio cerca di allungarne la durata e aumentarne la pressione.
Sostegno diaframmatico
Dato che l’azione dell’Appoggio diaframmatico va dall’alto verso il basso (con i visceri che vengono sospinti verso l’esterno dell’addome), per controbilanciare tale azione risulta necessaria una contrazione dei muscoli addominali, che comprimono i visceri da fuori verso dentro.
Questa manovra di supporto alla espirazione è in linea con la fisiologia respiratoria, perché, come esposto sopra, i muscoli addominali hanno naturalmente una funzione espiratoria.
Questa azione di supporto alla espirazione, utile a bilanciare la spinta verso il basso del diaframma sui visceri, e ad evitare i rischi di un eccessivo Appoggio diaframmatico, viene tradizionalmente chiamata Sostegno diaframmatico. Anche a livello lessicale il termine sostegno è opposto e complementare al termine appoggio, e indica una forza che va dal basso verso l’alto e sostiene qualcosa che sta scendendo verso il basso, limitandone la discesa.
Con essa i muscoli addominali comprimono i visceri ed indirettamente contrastano la discesa del diaframma, accompagnandolo verso l’alto, nonostante esso sia contratto e cerchi di scendere, e rendendo graduale la espirazione.
Così facendo il Sostegno diaframmatico impedisce che si blocchi la espirazione, e quindi fornisce un aiuto fondamentale alla continuità e completezza della espirazione nel canto artistico.
Per quanto l’aggettivo diaframmatico venga utilizzato in entrambi i casi, in realtà il significato è differente: l’Appoggio è diaframmatico perché è compiuto DAL diaframma, mentre il Sostegno è diaframmatico in quanto è offerto AL diaframma.
Per concludere: il diaframma produce l’Appoggio, i muscoli addominali producono il Sostegno, il diaframma SI APPOGGIA, e VIENE SOSTENUTO dai muscoli addominali.
Disfunzionalità dell’Appoggio a causa di una inconsapevole rigidezza del diaframma
- È evidente che il cantante gestisce il fiato senza ricorrere a movimenti estranei alla respirazione, ma semplicemente imparando a contrarre i muscoli inspiratori anche durante la espirazione e ad aumentare parallelamente l’azione espiratoria che altrimenti sarebbe posta in crisi. Per questo motivo la respirazione per il canto va considerata come utilizzo specialistico di movimenti naturali, e di questi movimenti segue le caratteristiche e anche le criticità, inclusa la fisiologica tendenza dei muscoli inspiratori a perdere elasticità avvantaggiando l’atteggiamento inspiratorio rispetto a quello espiratorio.
- Ricollegandoci a quanto detto sopra, infatti, si deve notare che un cantante somma la contrazione diaframmatica dell’Appoggio ai molteplici motivi di scarso rilascio del diaframma presenti in ogni individuo, cioè va a contrarre per motivi artistici un muscolo che tende ad essere già scarsamente rilasciato per motivi fisiologici. Ciò conduce il diaframma di un cantante a perdere la capacità di rilascio e ad assumere una posizione costantemente inspiratoria, cioè bassa, più velocemente che in un individuo qualunque.
- Questa perdita di elasticità è paradossalmente ancora più deleteria proprio per coloro che avrebbero bisogno di utilizzarla a fini artistici, evitando le pericolose conseguenze a carico della cervicale (aderente, si ricorda, alla laringe e al vocal tract) e dell’apparato digerente.
- Se poi si pensa che lo stress da performance aumenta il tono muscolare generale, e quindi anche del diaframma, si può concludere senza dubbio che, nonostante sia difficile accorgersene (anzi, spesso siamo indotti a credere l’opposto), il diaframma di un cantante si trova molto più facilmente in una condizione Appoggiata che Sostenuta e che la brevità della espirazione non è causata da scarso Appoggio, ma proprio dalla scarsità di Sostegno.
- Dovremmo allora saper distinguere fra una contrazione volontaria dei muscoli inspiratori, finalizzata alla gestione della espirazione cantata e che costituisce l’Appoggio, e una contrazione involontaria degli stessi muscoli, dettata dal fisiologico disequilibrio della meccanica respiratoria, che non solo ostacola il Sostegno, ma interferisce proprio con la manovra di Appoggio perché irrigidisce i muscoli che dovrebbero eseguirla.
- Ogni contrazione involontaria dei muscoli inspiratori durante la espirazione cantata, soprattutto se inconsapevole, è da considerarsi come disfunzionale a livello respiratorio perché limita gli scambi aerei, e come lesiva della possibilità di gestione artistica del fiato, perché limita l’Appoggio e rende faticoso il Sostegno.
Conclusioni: l’importanza di avere consapevolezza della propria postura diaframmatica
- A conclusione di questo sintetico discorso sull’utilizzo della muscolatura respiratoria nel canto (in cui per ragioni di sintesi, si è volutamente trascurato il ruolo della muscolatura toracica), vorrei sottolineare quanto sia importante che un artista vocale presti la massima attenzione alla elasticità dei muscoli inspiratori.
- La respirazione si svolge al meglio, con ampiezza di scambi, ovvero con completezza di rifornimento e di utilizzo della riserva d’aria, se i muscoli che la producono si trovano nelle condizioni di differenziare al massimo le due azioni di contrazione e rilascio.
- Inoltre, e questo riguarda ancor più da vicino le specifiche esigenze dei cantanti, qualsiasi manovra di Appoggio, che viene necessariamente compiuta grazie alla contrazione dei muscoli inspiratori, risulta limitata, quando non addirittura impedita, se questi muscoli sono già contratti.
- In sede didattica, quindi, prima di consigliare le manovre di Appoggio o Sostegno, andrebbe attentamente valutata la condizione in cui si trovano i muscoli respiratori dell’allievo. Solo dopo aver appurato la loro elasticità, ed eventualmente consigliato l’intervento di un terapeuta specializzato, si può essere sicuri che l’allievo si trovi nella possibilità fisica di eseguire correttamente tali manovre.
- La capacità di differenziare le condizioni di contrazione e rilascio, costituisce la premessa essenziale alla propriocezione del movimento, e quindi è la base fondante di un percorso di apprendimento chiaro e duraturo, per una vocalità artistica efficace ed efficiente.
IL DIAFRAMMA: VITTIMA O CARNEFICE? di Daniele Raggi
Grande e straordinario ”muscolo della vita”; sottile, forte, impari, centrale, asimmetrico nella sua forma ed anche nella sua funzione.
Formato da una cupola che nella realtà non ha mai una forma simmetrica come viene rappresentata nelle varie immagini.
È il muscolo principe della respirazione; divide ed al tempo stesso unisce due grandi cavità: la parte superiore, respiratoria e la parte inferiore, viscerale. Viene perforato ed attraversato da grandi tronchi vascolari e dall’esofago per portare il cibo fino al sottostante stomaco ed intestino.
Nel tempo, il suo movimento spesso ridotto… e la sua forma modificata…, risultano essere il prodotto finale di tutto ciò che ha dovuto subire nel corso della vita: dal tipo di emozioni e di stress, alla condizione dei visceri, alla forma del torace; al tipo di lavoro e sforzi che ha sostenuto la persona, alla forma ed ancoraggio del cuore a lui adesso attraverso il pericardio.
Se vogliamo ben comprendere la sua vita e le sue peripezie, basti pensare a quelle persone con una enorme pancia, in cui il volume dello stomaco, il volume del fegato, il volume dei visceri e del grasso viscerale fungono da seri ostacoli ad ogni atto inspiratorio. È così tanto lo sforzo a scendere per inspirare (introiettare aria), che alla fine dei suoi costanti sforzi, nel tempo, lui tenderà a rimanere contratto, “bloccato” verso l’inspirazione; ovvero verso il basso, riducendo così la sua corsa naturale verso la risalita, ovvero il “lasciare uscire l’aria” viziata. Tale alterazione e “riduzione di movimento” (quando i movimenti sono fisiologici fungono anche da “pompa per i fluidi” interni), ovviamente si rifletterà su una serie di organi e funzioni; per esempio il ritorno venoso e linfatico dagli arti inferiori non solo non sarà favorito, ma sarà addirittura ostacolato dalla iper-pressione endo-addominale per colpa del suo ridotto movimento de-compressore e della sua alterata posizione…, più bassa del dovuto.
Per questa stessa ragione, lui è anche il principale diretto responsabile del “reflusso gastro-esofadeo”, del “cardias beante”, dell’”ernia iatale”.
La sua posizione bassa, a ridosso dei visceri, si scopre essere responsabile della pancia gonfia e debordante e molto spesso anche delle incontinenze, delle difficoltà di evacuazione, etc.
Data la sua posizione più bassa del dovuto per le ragioni espresse sopra, lui diviene anche uno dei principali elementi di disturbo della parte alta, agendo da trazionatore verso il basso a carico del cuore, della parte del mediastino…, ed attraverso questo stesso arriva ad agire sullo ioide e dunque su tutti i muscoli che dall’osso ioide arrivano alla bocca, alla lingua, al collo, alle cervicali.
Insomma, non si scherza con il diaframma.
Ma, se proprio dobbiamo essere giusti, dobbiamo riconoscergli anche la componente di vittima di un sistema molto complesso, in cui lui si trova a dover rispondere pedissequamente ad ogni stato emotivo di allerta, ad ogni disagio fisico. Nulla lo lascia indifferente!!!
Ma allora, in un trattamento posturale, come ci si deve comportare? Dove agire in primo luogo? Ignorarlo…, trattarlo da vittima… o da carnefice? È veramente sufficiente fare la classica “respirazione addominale diaframmatica” tanto decantata? Assolutamente no!!!
In un sistema tanto complesso si deve conoscere la sua dinamica alla perfezione. E proprio perché lui è il regista delle catene e particolarmente sensibile ad ogni stato emozionale o fattori traumatici, deve essere sempre considerato, valutato e coinvolto nel piano terapeutico in base alla storia clinico/temporale degli eventi della vita di quel singolo paziente.
Dobbiamo anche ricordarci che le sue tre porzioni (anteriore, media e posteriore), hanno movimenti diversi, fattezze e composizione proteica diverse e dunque velocità e resistenze diverse. Come tali subiranno impatti adattativi diversi.
Il suo trattamento a prescindere deve essere fatto tenendo conto di come si è posizionato e di come si è adattato. Se la sua corsa è ampia o breve, se la sua posizione prevalente è alta media o bassa. Se è lui che comprime i visceri o sono loro a perturbare il diaframma.
Inoltre, ogni trattamento che gli si riserva, avrà effetti completamente diversi in base alla posizione del corpo che adotteremo nel trattamento ed alla messa in tensione delle catene o non, di cui lui ne è corresponsabile.
Dopo quasi 40 anni di osservazione clinica in ambito posturale, non ho più dubbi sul fatto che la “postura decompensata” ed una azione di “allungamento globale” delle catene, sia il modo migliore per ottenere nuovamente “funzionalità del sistema” ed “azzeramento dei dolori”.
Ed ecco che le “posture decompensate”…, la ricerca e la messa in relazione dell’effetto con la causa, si rivelano strategie speciali e producono risultati davvero straordinari.
Ecco una foto di come il diaframma possa deformarsi durante la vita. Ora non ditemi che la vita non ha il potere di “formarci e poi anche…deformarci”.
(D. Raggi)
“I Vocalizzi” di Antonio Juvarra
I VOCALIZZI, BENE IMMATERIALE ITALIANO, PATRIMONIO DELL’ UMANITÀ
- Come molte grandi scoperte della storia sono anonime, così è ignoto il nome di colui che per la prima volta scoprì i ‘mattoni’ con cui si costruisce la voce cantata, o, volendo scegliere una metafora più appropriata, gli alimenti con cui si sviluppa l’ organismo vivente della voce cantata: i vocalizzi.
- Sembrerebbe lapalissiano affermare che i ‘vocalizzi’ sono fatti, per definizione, di niente altro che di vocali, se non fosse che alcuni ignorano che le vocali rappresentano delle precise forme naturali, di per sé perfette, e non una materia informe da plasmare a proprio piacimento. Se si condivide quest’ ultima idea, si arriverà inevitabilmente al comportamento del tizio che si mise a raddrizzare le zampe posteriori dei cani sulla base della motivazione ‘logica’ che quelle anteriori sono dritte.
- In effetti tutte le volte che sentiamo qualcuno teorizzare, ad esempio, che le labbra devono essere arrotondate anche cantando vocali come la ‘E’ o la ‘I’ o che, viceversa, devono essere distese anche cantando vocali come la ‘O’ e la ‘U’, possiamo essere certi che ci troviamo di fronte a un collega del suddetto teorico del raddrizzamento delle zampe dei cani…
- Secondo la concezione del belcanto, il concepimento mentale ‘im-mediato’ della vocale (ossia ‘non mediato’ dalla mente-razionale-analitica) è il DNA sia della vocale parlata, sia della vocale cantata, dato che le vocali rappresentano delle forme innate, impresse nella mente come lo è l’ intonazione delle note, motivo per cui dire a un allievo di cantare una ‘A’ pensando a una ‘U’ o di cantare una ‘I’ pensando a una ‘Y’ ha lo stesso grado di assurdità che se dicessimo a un allievo di intonare un Do pensando a un Fa o un La pensando a un Sol diesis.
- Questo principio fondamentale è alla base della concezione del canto della scuola italiana storica ed è stato autorevolmente riproposto da Gigli nella sua lectio magistralis, tenuta a Londra nel 1945, con queste testuali parole:
“Il passaggio da una vocale all’altra viene fatto mentalmente e senza nessuna azione fisica diretta. Io non mi soffermo sulla forma fisica, ma primariamente su quella mentale e sulla fluida fusione di vocale in vocale internamente. Ogni suono vocalico dev’ essere formato mentalmente prima di essere fisicamente prodotto su base spontanea e naturale, e in maniera fluida e sciolta. Il fatto stesso di concepire mentalmente ogni suono vocalico prima di produrlo, suscita movimenti semplici e naturali delle parti coinvolte. Se il cantante non è abituato a questo lavoro mentale di preparazione, non avendo mai ricevuto un tal insegnamento, vorrei sinceramente consigliargli di iniziare subito a coltivare questa abitudine di importanza vitale. Questa esige soltanto un’ intensa attenzione vigile per un certo periodo di tempo. Con paziente e perseverante pratica, il pensiero e l’ azione si fondono assieme in un atto istantaneo che avviene in una frazione di secondo.”
- Con queste affermazioni Gigli andava al cuore del vero apprendimento del canto, che deve adeguarsi NON alle astrazioni scientifiche, ma alla REALTÀ, rappresentata da quella che è la struttura della fonazione umana: il fatto di basarsi su un controllo INDIRETTO di tipo mentale-immaginativo e non su un controllo diretto di tipo meccanico, come succede invece, per lo meno inizialmente, con gli altri strumenti musicali.
- Per quanto riguarda invece lo spazio che conferisce rotondità alla vocale, anch’esso deve essere creato senza alterare questa sua genesi naturale per concepimento mentale immediato, il che può avvenire solo attingendo alla distensione globale preliminare dell’ inspirazione. Dopodiché il DNA della vocale pura darà automaticamente anche la forma precisa allo spazio indeterminato, creato dal respiro (quasi una spaziosità onnipotenziale) e a questo punto si prenderà coscienza che la vocale non è in uno spazio, ma è lo spazio.
- Le vocali non sono degli stampini statici, ma, come ricordava Gigli, delle forme fluide. Come le bolle di sapone hanno dimensioni variabili e fluttuanti, ma mai succede che esse passino dalla loro forma naturalmente rotondeggiante a una forma cubica, così le vocali, per rimanere quello che sono, i fattori naturali della sintonizzazione automatica del suono, non possono diventare oggetto delle vivisezioni ‘tecniche’ degli apprendisti stregoni del canto (il primo stregone ‘storico’ essendo stato Manuel Garcia jr).
- Il principio di interrelazione che governa tutti gli aspetti della vita, interessa anche il vero canto (ossia il canto a risonanza libera), soprattutto per quanto riguarda quella giusta relazione dinamica tra le vocali, che rende possibile la perfetta auto-sintonizzazione del suono.
- Pensare che nel canto esista una vocale ideale o preferenziale, al cui modello tutte le altre vocali dovrebbero uniformarsi, porta a trasformare quella vocale in uno stampino statico, in una gabbia rigida, in cui le altre vocali verranno rinchiuse, perdendo così la loro natura di essenze fluide, riflessi mobili del continuum sonoro.
- Così gli adoratori della ‘I’ otterranno come risultato quello di schiacciare la voce, gli adoratori della ‘U’ di opacizzarla, gli adoratori della ‘O’ di appesantirla e così via.
- Il destino ironico che si realizzerà è dunque il seguente: quella vocale ‘ideale’ che, se non assolutizzata ma messa in relazione con le altre vocali (alternandosi con esse in uno stesso vocalizzo e rispettando rigorosamente il movimento semplice e fluido dell’ articolazione naturale parlata), avrebbe potuto liberare la propria energia e comunicare anche alle altre vocali, quasi per osmosi, la propria qualità acustica (ossia la lucentezza della ‘I’, la morbidezza brunita della ‘U’, la rotondità della ‘O’ ecc.), diventa un compartimento stagno o, peggio ancora, il buco nero che risucchierà e imprigionerà in sé l’ energia e gli armonici, delle altre vocali e anche di sé stessa.
- Si può affermare quindi che alla base della concezione belcantistica dei vocalizzi c’ è la scoperta geniale che a determinare la perfetta sintonizzazione del suono non è mai la singola vocale, qualunque essa sia, (e tanto meno la singola consonante!), ma è la giusta relazione dinamica tra due vocali e/o note musicali, la quale a sua volta è creata naturalmente dal rispetto del movimento semplice e sciolto dell’ articolazione parlata naturale, dove anche le consonanti, al pari delle vocali, non sono fatte (magari ‘tecnicamente’), ma vengono lasciate avvenire (si veda sempre la lectio di Londra di Beniamino Gigli):
- Ad alcuni sembra impossibile che le vocali del canto, con la loro spaziosità, il loro squillo e la loro potenza, siano geneticamente uguali alle vocali del parlato, ma questa apparente impossibilità è ciò che caratterizza anche il rapporto genetico esistente tra una scintilla e una fiamma, e tra un seme e un albero gigantesco.
- Chi si è fatto confondere dalla loro differenza illusoria, è lo stesso che poi crederà alla teoria dualistica della radicale differenza tra le vocali parlate e le vocali cantate, e quindi tra parlato e canto.
- A dare una giustificazione pseudo-scientifica a questa concezione dualistica è stato storicamente Manuel Garcia, lo stesso a cui si deve anche l’ equazione (falsa in quanto causa diretta di distorsione acustica) ‘suono scuro = suono rotondo’, equazione dietro alla quale si nasconde qualcosa di insospettabile: l’ espediente usato dai bambini per ‘fare il vocione’ quando giocano a fare l’ imitazione del cantante lirico, il che ci dà l’esatta misura della serietà e dell’ attendibilità di teorie del genere.
- Nonostante questo imbarazzante retroscena, il grado di condizionamento, esercitato dal ‘foniatricismo’ di Garcia sulle successive generazioni di cantati e insegnanti di canto, è stato incalcolabile. Si può dire che la sua rilevanza è stata tale da creare addirittura casi di falsa coscienza o di sdoppiamento alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, ossia situazioni in cui il canto naturale, reale di un determinato cantante è stato inconsapevolmente contraddetto dall’ opposta concezione del canto, dallo stesso fatta propria teoricamente e adottata come insegnante, con le conseguenze didattiche disastrose che facilmente si possono immaginare.
- Il caso più eclatante di schizofrenia tecnico-vocale è quello di Aureliano Pertile, grandissimo cantante ‘all’italiana’, uno dei cui mirabolanti pregi era rappresentato proprio dalla purezza di emissione delle vocali, ma che come trattatista concepì testualmente il seguente mostro concettuale ‘alla Garcia’:
“Le vocali non si devono usare nel canto col medesimo colore della lingua parlata. La A deve essere pronunciata A/O, la O aperta deve essere pronunciata O chiusa, la I come una I francese, la E deve essere pronunciata EU, la U come U/O.”
- Ci si potrebbe chiedere come abbia fatto Pertile a prendere un abbaglio del genere, lui che in altri passi del suo trattato giustamente mette in guardia contro il rischio di ingrossare il “calibro” della voce. La risposta è facilmente individuabile nel fatto di ignorare che quel “calibro” piccolo, da lui giustamente auspicato, non era altro che, molto semplicemente, il nucleo del suono generato dal sistema dell’ articolazione parlata, cioè dalle vocali pure del parlato, e che quell’ oscuramento delle vocali, da lui teorizzato sulla scia di Garcia, è proprio la causa che determina il paventato ingrossamento del “calibro” della voce, che sarebbe come pensare di ingrandire il nucleo di un atomo o di una cellula, o non saper distinguere il centro dalla circonferenza o il contenuto dal contenitore, e, per ampliare il secondo elemento, cercare di ampliare il primo.
- Precisato che le vocali che costituiscono la materia prima del vocalizzo devono essere vocali pure (nel senso che si è detto), possiamo passare a definire il ‘vocalizzo’ come una serie di suoni, basata sulla successione di una o più vocali e/o note musicali, che, se collegata armonicamente col respiro naturale globale, agisce da fattore naturale di sviluppo della voce cantata.
- Quando qualcuno si stupisce dell’ importanza centrale attribuita al mantenimento delle vocali pure del parlato nel canto e non riesce a mettere in relazione questo aspetto con il maggior volume (nel doppio senso di potenza e rotondità) che le vocali cantate hanno rispetto alle vocali cantate, è perché non ha capito che il ruolo delle vocali pure nel canto riguarda il fenomeno della creazione del nucleo del suono, mentre la potenza del suono è da mettere in relazione con il fenomeno del contatto con l’ energia, reso possibile dalla giusta respirazione naturale globale (e non superficiale come quella del parlato). Si tratta insomma della stessa differenza esistente, in una macchina, tra l’ impianto elettrico e il motore, motore la cui potenza ovviamente non è creata dall’ impianto elettrico, ma che senza di esso non può funzionare.
- Ubbidendo rigorosamente al principio eufonico della genesi delle vocali pure dal movimento essenziale, sciolto e autogeno dell’ articolazione parlata (“si canta come si parla”), il vocalizzo mette la voce nelle condizioni di sintonizzarsi automaticamente, cioè di trovare automaticamente la ‘posizione’ grazie a quello che Mancini definì “accordo tra moto consueto della bocca e moto naturale della gola”.
- Poiché la struttura dinamica e flessibile, ossia la naturale mobilità acustica che caratterizza la fonazione umana, si rende evidente con la semplice alternanza di due vocali o di due note, inizialmente la presenza delle consonanti deve essere ridotta al minimo per evitare che la consonante, pronunciata eccessivamente, cioè fatta attivamente, ‘mangi’ lo spazio della vocale e crei una barriera tra una vocale e l’altra. Vedasi in proposito la prescrizione di Tosi (anno 1723), che recita:
“Se il maestro fa cantare allo scolaro le parole prima ch’ egli abbia un franco possesso del solfeggiare e del vocalizzar appoggiato, lo rovina.”
- Questo allo scopo di rispettare il giusto rapporto esistente tra vocale e consonante, dove la consonante funge da semplice collegamento o ponte (con-sonante) e non da ‘sonante’, per cui si può dire che si parla e si canta sulle vocali e non sulle consonanti. Non a caso nel linguaggio ciò che realizza compiutamente la ‘vocalità’, ha preso appunto il nome di ‘vocale’, mentre i fattori formativi della voce cantata sono stati individuati dai belcantisti nei vocalizzi e non nei ‘consonantizzi’.
- È per evocare questo giusto rapporto tra vocali e consonanti (rapporto in cui le consonanti, se non sono fatte attivamente, ma sono lasciate avvenire da sole, in modo essenziale, fanno sorgere la sensazione che la vocale sia diventata più lunga), che nei suoi esercizi Vaccai suddivide le sillabe del testo, ad esempio “Manca sollecita”, non nel modo tradizionale, cioè “Man-ca sol-le-ci-ta”, ma in un modo più favorevole al canto, che è “Ma-nca so-lle-ci-ta”, modalità che riproduce esattamente il nostro concepimento del rapporto tra vocale e consonante quando parliamo e di cui non siamo coscienti a causa della naturale velocità con cui parliamo.
- Le vocali pure rappresentano anche i diversi timbri della voce, ossia vere e proprie distinte dimensioni del suono, che, ancora una volta, si collegano fluidamente l’ una con l’ altra solo grazie alla perfezione del sistema di articolazione della voce parlata e dei suoi movimenti sciolti, caratterizzati da un’ essenzialità tale da sfiorare la minimalità.
- Quando qualcuno cerca la misteriosa causa ‘tecnica’ del legato nel canto e non la trova, è perché ignora che questa risiede in nient’ altro che nel rispetto del servomeccanismo naturale dell’ articolazione parlata, l’ unico in grado di congiungere (con un movimento che è nello stesso tempo sciolto e ad alta precisione) il nucleo intimo di un suono (sia esso una vocale o una nota) col nucleo intimo del suono successivo.
- È pertanto qui, nel momento apparentemente più insignificante, rappresentato dal movimento articolatorio con cui si passa da una vocale alla successiva e/o da una nota alla successiva, che risiede il segreto funzionale sia dell’ articolazione parlata come sintonizzatore automatico del canto sia del legato e quindi il senso dei vocalizzi.
- Di che tipo di movimento si tratta? Come abbiamo visto, si tratta di un movimento: sciolto, essenziale, automatico e naturalmente veloce (quindi né rallentato né velocizzato).
- Già il rispetto di queste caratteristiche strutturali del movimento articolatorio ci consente di utilizzare il processo naturale dell’ articolazione come cartina di tornasole per smascherare le vocali emesse erroneamente. Ad esempio, se il movimento della mandibola che accompagna il passaggio da una vocale alla successiva, diventa innaturalmente ampio (cioè più ampio di quello che intercorre parlando), si può essere sicuri che la vocale (nonostante l’ impressione, anche gratificante, di spaziosità e rotondità, che può dare) non è perfettamente sintonizzata.
- A questo proposito occorre distinguere rigorosamente il movimento della mandibola, quale interviene nell’ articolazione (e che deve avvenire sempre nel modo sopra descritto), dal movimento di abbassamento della mandibola, quale interviene naturalmente nella zona acuta per assecondare l’aumento dello spazio di risonanza oro-faringeo.
- A rassicurarci sul fatto che anche quest’ ultimo sia qualcosa che rimane inscritto nella dimensione della naturalezza globale, costitutiva del vero canto, e non rappresenti quindi una contraddizione del principio “si canta come si parla”, è sufficiente l’ osservazione di quello che succede quando si passa dal normale parlare al chiamare qualcuno a distanza: naturalmente la bocca si aprirà di più, ma i movimenti di articolazione non verranno alterati, ampliati o meccanizzati, ma rimarranno quelli armonici e sciolti del parlato naturale.
- Nel caso in cui, come molti cantanti erroneamente fanno, i movimenti articolatori vengono invece ampliati e meccanizzati, la causa si dovrà imputare al fatto di ignorare che il processo di articolazione-sintonizzazione deve essere indipendente da quello di creazione dello spazio di risonanza arretrato (la ‘gola aperta’). I cantanti che articolando le parole ‘scavano’ con la mandibola, stanno semplicemente cercando lo spazio di risonanza che dà rotondità al suono, nel posto sbagliato: cioè davanti e non dietro. In questo modo viene alterato il processo di articolazione-sintonizzazione, che è rappresentato dal movimento con cui si passa, appunto, da una vocale alla vocale successiva e/o da una nota alla nota successiva.
- Si tratta, come abbiamo visto, di un movimento veloce, ma non velocizzato, paragonabile al perfetto automatismo della chiusura delle palpebre, che avviene da solo, inconsapevolmente, ogni tot secondi. In entrambi i casi la condizione della perfetta funzionalità del movimento è data dal lasciare che questo movimento avvenga da solo e che non siamo noi a farlo, nel qual caso esso perderebbe la perfezione e l’ essenzialità di tutti i movimenti muscolari naturali, per acquisire la grossolanità e la rudimentalità, tipiche di tutti i movimenti muscolari volontari e meccanici, alias pseudo-tecnici.
- Purtroppo a indurre in tentazione il cantante, portandolo a fare lui ‘manualmente’ (cioè non automaticamente) il movimento articolatorio, c’ è più di una causa:
1 – il tempo ‘dilatato’ che caratterizza le frasi del canto rispetto alle frasi del normale linguaggio parlato;
2 – l’ intenzione ‘tecnico-vocale’, cioè la preoccupazione di ‘fare bene’ l’ articolazione;
3 – l’ intenzione espressiva, che porta ad ampliare, ingrossare o intensificare il movimento articolatorio per dare risalto drammatico dalla parola;
4 – la paura di non ‘fare niente’ dal punto di vista tecnico-vocale, il che porta all’estremo opposto dello ‘strafare’, atteggiamento chiamato dagli antichi “affettazione”.
- In effetti la naturale velocità con cui parliamo è il motivo per cui non abbiamo coscienza dell’ estrema essenzialità, fluidità e quasi ‘trasparenza’ dei movimenti articolatori con cui parliamo, ma, allo stesso tempo, rappresenta proprio la garanzia che questi movimenti, lasciati automatici e naturalmente veloci, continuino ad essere perfetti dal punto di vista funzionale.
- Se questo concetto non è chiaro, è facile che si verifichi un altro fenomeno di sdoppiamento, paradossale come quello, già citato, del cantante che inconsciamente canta in un modo e poi insegna l’opposto. In questo caso avremo un allievo di canto che cantando pensa di articolare le parole nello stesso modo con cui le articolava parlando, senza accorgersi che invece sta solo imitando razionalmente (ovvero meccanicamente, ovvero esternamente) qualcosa che parlando realizzava con assoluta spontaneità e perfetta immedesimazione-fusione col fenomeno naturale chiamato ‘articolazione’.
- I due momenti ‘genetici’ dell’ articolazione (avvio del suono puro per concepimento mentale della vocale e movimento di passaggio da una vocale alla successiva) sono quindi accomunati dalla stessa caratteristica ‘strutturale’: il fatto di avvenire ‘in automatico’ e non ‘essere fatti’.
- Questo genera un paradosso a cui la mente occidentale non è abituata e che quindi difficilmente accetta: all’origine del perfetto fare c’ è il non fare, che però non corrisponde a un atteggiamento di inerzia, ma di vigile presenza mentale e di raffinato autocontrollo passivo, per cui si può affermare che la ‘tecnica vocale’ consiste nella capacità di non cadere nella tentazione di interferire con l’ automatismo naturale e di sostituirlo con azioni grossolane come il controllo meccanico muscolare diretto e volontario. (Si veda in proposito, ancora una volta, la testimonianza di Gigli, citata all’ inizio)
- A chi teorizza l’ingenua utopia secondo cui il parlato naturale dovrebbe essere ‘corretto’ e ‘perfezionato’ per assurgere alle altezze ‘artistiche’ del canto, è bene ricordare che, quando si tratta di entrare in contatto con fenomeni naturali quali sono la fonazione e l’ articolazione, il massimo che, per contribuire a creare il fenomeno, può fare l’ uomo, è non fare danni, come il mito del dr. Frankenstein è qui a ricordarci.
- Se infatti proviamo a chiedere chi sarebbe il demiurgo che dovrebbe compiere la progettata miracolosa operazione del ‘perfezionamento’ di un processo naturale complesso come quello della fonazione e dell’ articolazione, e, increduli, ci sentiamo dire che sarebbe l’ uomo, allora immediatamente avremo la certezza che non di ingenua utopia si trattava, ma di tragicomica presunzione.
- Al giorno d’ oggi, soprattutto nel canto pop, ma non solo, è ravvisabile una tendenza opposta a dare più importanza negli esercizi alle consonanti, che così vengono poste erroneamente in primo piano, diventando una sorta di supporto, di stampella e, nei casi peggiori, di detonatore vocale, il tutto finalizzato a realizzare quella che è la fissazione moderna: tranquillizzare insegnanti e allievi che il suono sia abbastanza ‘avanti’, col risultato che in tal modo il suono non sarà più ‘sintonizzato’, ma sarà, banalmente, ‘spinto’.
- È chiaro che in questi casi si perderà la coscienza della struttura funzionale del vocalizzo, inteso come interrelazione dinamica tra più vocali e/o note, e non è un caso che proprio al giorno d’ oggi si stia smarrendo la comprensione del vero senso dei vocalizzi, ridotti a semplici espedienti per ‘riscaldare’ la voce o addirittura sostituiti, in maniera del tutto irresponsabile, con le ‘sirene’ o altri risibili espedienti meccanici di matrice foniatrica come la ‘mascherina’ da rianimazione.
- In effetti la storia della didattica vocale moderna, quasi tutta all’ insegna della foniatria, non è altro che la storia dei danni arrecati per stupida presunzione al patrimonio immateriale del belcanto, a partire proprio dai vocalizzi.
- Non solo. La spudorata ignoranza del senso e della funzione dei vocalizzi, invece di essere nascosta, viene esibita e spacciata come nuova ed avanzata tecnica vocale dagli insegnanti di canto foniatricizzati, i quali si spingono a fare quello che nemmeno l’ iniziatore della didattica vocale foniatrica Manuel Garcia aveva osato: buttare i vocalizzi nel cestino.
- Uno dei primi esempi di questa tendenza è rappresentato dal famigerato maestro di ‘affondo’ Arturo Melocchi, il quale, stando alla testimonianza di Del Monaco, teorizzava che “i vocalizzi non servono a niente, se non fanno lavorare anche la laringe, mettendo in tensione i muscoli aritenoidei delle corde vocali, come se fossero le briglie di un cavallo.” (sic)
- L’ incomprensione totale, che qui Melocchi dimostra, tra le diverse e distinte funzioni della voce (fonazione, articolazione-sintonizzazione ed energizzazione), incomprensione unita alla neo-barbarica e pseudo-scientifica adorazione della Laringe e relativi muscoli, spiega ad abundantiam il motivo per cui questo insegnante fu a suo tempo radiato dal conservatorio per volere di Umberto Giordano in persona.
- Il punto più basso di questa parabola discendente è però rappresentato da Jo Estill, la demenziale inventrice delle cosiddette ‘sirene’, ovvero gli ANTI-VOCALIZZI, e delle cosiddette ‘figure obbligatorie’, che stanno al canto come le ‘vivisezioni’ di Jack lo squartatore stanno a un’ operazione chirurgica.
- Il fatto che in questo caso nessun provvidenziale deus ex machina sia intervenuto, impedendo alla Estill di perpetrare il suo crimine ‘scientifico’ contro la voce cantata, e ‘certificando’ l’ attentatrice non con surreali lauree ad honorem (?!), bensì nel modo con cui Giordano aveva ‘certificato’ Melocchi, ci dà il senso e la misura della degradazione raggiunta oggi dalla didattica vocale.
Antonio Juvarra